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Essere romano
di
Vincenzo Morelli

 

   Che io sia romano è un dato di fatto per così dire anagrafico, come tanti e tanti altri.
    Nato a Roma e battezzato a San Pietro basta e avanza per avere tale appellativo che per la verità da giovane poco mi interessava, data la scarsa importanza che davo a tale identificazione. Altrove erano i miei pensieri.
    Ricordo soltanto che sotto il militare, soprattutto durante il primo periodo, quando poco ci si conosce fra commilitoni, qualcuno mi chiamava " ehi tu romano!", come d'altronde gli altri erano fiorentini o milanesi e così via, non distinguendo città e provincia, provincia e regione, per cui pure uno nato a Frosinone o a Bracciano diventava romano, per il solo fatto che non parlava con la cadenza siciliana o veneta. Ricordo anche molto bene che questo mi disturbava, segno che già covava dentro di me inconsciamente uno spirito campanilistico, o per meglio dire l'orgoglio del "nato nella Capitale" che non deve essere confuso neanche con i dintorni. Tutto qui. Niente di più.
    Il termine " a romanaccio" come sappiamo più sfottente che dispregiativo con il quale si viene amichevolmente chiamati fra compagni occasionali di gite o di vacanze con "forestieri", quasi sempre accompagnato dalla solita battuta in dialetto pesante che neanche più a trastevere si usa ( anche perchè proprio lì non ci sono più romani), tipo "annamo a magnà !" mi infastidiva invece notevolmente.
    All'estero poi alla domanda "Italiano? Ah di Roma !" seguiva quasi sempre " e come stà il vostro Papa? " battuta che prendevo per quello che era, ma che mi dava nettamente l'idea di come gli altri ci vedevano; confusi ancora oggi, e forse non a torto, con la Curia; per cui a nessuno passava in mente di dire "ah la città dei Cesari !" ma solamente, e in tono ironico, "ah e il Papa che dice?.
   Ecco come ho vissuto fino ai miei trentacinque anni circa la mia "Romanità". Non dico che il termine mi calzava come alto, bruno, e ...romano, ma quasi; ero romano, orgoglioso e consapevole di essere nato a Roma e basta.
    Un ricordo, che prima mi affiorava alla mente ogni tanto, col passare del tempo ritornava presente sempre più spesso. Mio padre, che ho perso ai miei ventisei anni, proprio quando inizia l'età per dialogare di cose serie di famiglia, che mi diceva ogni volta che si andava in auto a Via Giulia:

    " vedi Enzè stà Chiesa. Là dentro ce sta un nostro bisnonno che si chiamava come me Giovanni. che era un fratellone, perchè noi devi sapè che semo romani de otto generazioni."

    "Chissà che vuole dire?" Pensavo io da ragazzo! Però intanto avevo memorizzato; quanto bastava. Passa il tempo e poi per tutti arriva il momento X e scatta la molla. "Ma chi era questo bisnonno Giovanni o Luigi, che neanche mio padre si ricordava tanto bene?"

    Anno Domini 1978. Partono le ricerche. Da dove? Ovviamente dalla Chiesa di Via Giulia all'arco Farnese, o meglio dall' archivio della sua confraternita, da anni depositato al Vicariato.
    Tre anni di studi, di ricerche di nomi e personaggi per me completamente nuovi ed ecco ricostruiti trecento anni della famiglia Morelli. Accidenti! aveva ragione mio padre. Tutto l'albero genealogico con gli atti di nascita, di battesimo, di cresima, di matrimonio, di morte di circa cinquanta componenti la famiglia, fino al 1706 data di nascita del primo "sventurato" Pietropaolo Morelli trasferitosi da Livorno a Roma all'età di otto anni, alla morte del padre Francesco fiorentino, presso la sorella maggiore già a Roma dopo il matrimonio.
    Mica poco. Sette generazioni di Morelli, otto con i miei figli, nati a Roma, documentati dai libri delle Parrocchie da Trastevere a Piazza Navona, (praticamente tutta la Roma di allora), passando per S. Crisogono, S. Cecilia, S. Maria in Trastevere, S. Caterina della Rota, S. Luigi dei Francesi e così via, fino al 1870, per poi continuare anno più anno meno all'anagrafe di Roma fino ai giorni d'oggi.
    Cominciavo già ad essere molto più che orgoglioso della mia " Romanità". Direi fiero.
    Gli anni successivi furono tutti dedicati all'affinamento delle mie ricerche, aiutato persino da una novantenne cugina di mio padre, Antonia Morelli, che fino ad allora non avevo mai conosciuto personalmente.
    Fu lei a raccontarmi tante e tante vicende sulla famiglia (tutte quelle che non ebbi il tempo di affrontare con mio padre); lei che mi fece anche scoprire iscrizioni, lapidi, vecchie proprietà in giro per la mia Roma, di cui ignoravo completamente l'esistenza.
    Peccato che sul più bello se ne sia andata! Grazie Antonia.

    A quel punto giravo per Roma a petto gonfio e testa alta.
    Ma non era niente! Ed ora vi racconto il perchè.

    Un giorno del 1995, ci ritroviamo io e mio fratello Giorgio, interessato e coinvolto anche lui in questa avventura, a parlare delle nostre cose; ci viene in mente di saperne di più su quella casa che nostro padre aveva ereditato a Via Giulia, dove abitava da ragazzo, e venduta frazionata negli anni '40, '50 e '60. Casa che, sebbene da me mai vissuta, nè visitata dentro, dal di fuori mi è così familiare che la considero ancora mia.
    Quello fu pane per i denti di mio fratello. Partì all'attacco a testa bassa fra Conservatoria, Archivio Notarile, di Stato, Capitolino, dei Fiorentini, dei Bresciani e così via. Più andavamo avanti , anzi indietro, e più materiale usciva fuori, intrecciata come era la vita della famiglia con confraternite, compravendite, atti notarili, doti, testamenti, tribunali. Di tutto e dovunque.
    In tre anni il mio archivio è passato da mille a quasi seimila pagine di documenti, tutti fotocopiati da originali depositati.
    Altro che semplice albero genealogico; c'era il vissuto quasi quotidiano della famiglia Morelli dal 1800 ad oggi, calato nella realtà dei tempi, con un filo conduttore unico che ha attraversato centosessanta anni della storia di Roma da Napoleone a Mussolini.
    Se non mi prendessero per pazzo girerei per la mia Roma con il vessillo capitolino. Un po' di più che semplice romano direi!
    La vicenda, di cui ho scritto un saggio intitolato "Avevano pensato a tutto..", in due righe e questa.
    Agli inizi dell'ottocento, dopo il periodo Napoleonico, il mio trisavolo Giovanni capomastro falegname, (quello di cui parlava mio padre senza saperne nulla di nulla), si aggiudica un bando di gara per l'assegnazione in enfiteusi (in uso) di circa venti immobili di proprietà di alcune confraternite romane, per tre generazioni di maschi. Gli immobili vengono restaurati ed affittati e inizia così per la sua famiglia, poi per i figli e poi ancora per i nipoti, un lungo periodo di benessere e di elevazione sociale.
    Dopo il Settembre del 1870 vengono applicate anche a Roma alcune leggi del Regno d'Italia, che di fatto tolgono tutti i beni alle confraternite; beni che vanno all'asta, oppure, come nel nostro caso, passano quasi d'ufficio, per due lire, agli enfiteuti.
    Alla fine di una una lunga battaglia giudiziaria fra i Morelli e le povere confraternite ovviamente soccombenti, gli immobili diventano quindi di proprietà della famiglia, che fino ad allora li aveva solo gestiti in cambio del pagamento di un modesto canone.
    Potete immaginare cosa è successo poi.
   L'euforia iniziale per il colpaccio fatto, qualche ripensamento verso i "benefattori" con un contentino, e poi fra divisioni, testamenti, liti, cause, demolizioni, risarcimenti, la generazione successiva, quella per intendersi di mio padre alla fine non ha conservato più nulla. Il tutto raccontato e testimoniato in quasi cinquemila pagine .
    I Morelli hanno lasciato o no il segno del loro passaggio ?
    La mia Romanità è al massimo. Mi spetta di diritto.


Vincenzo Morelli

Settembre 1998

FINE


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