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Essere romano
Che io sia romano è un dato di fatto per così dire
anagrafico, come tanti e tanti altri.
Nato a Roma e battezzato a San Pietro basta e
avanza per avere tale appellativo che per la verità da giovane poco mi interessava, data
la scarsa importanza che davo a tale identificazione. Altrove erano i miei pensieri.
Ricordo soltanto che sotto il militare, soprattutto durante il primo
periodo, quando poco ci si conosce fra commilitoni, qualcuno mi chiamava " ehi tu
romano!", come d'altronde gli altri erano fiorentini o milanesi e così via, non
distinguendo città e provincia, provincia e regione, per cui pure uno nato a Frosinone o
a Bracciano diventava romano, per il solo fatto che non parlava con la cadenza siciliana o
veneta. Ricordo anche molto bene che questo mi disturbava, segno che già covava dentro di
me inconsciamente uno spirito campanilistico, o per meglio dire l'orgoglio del "nato
nella Capitale" che non deve essere confuso neanche con i dintorni. Tutto qui. Niente
di più.
Il termine " a romanaccio" come sappiamo più
sfottente che dispregiativo con il quale si viene amichevolmente chiamati fra compagni
occasionali di gite o di vacanze con "forestieri", quasi sempre accompagnato
dalla solita battuta in dialetto pesante che neanche più a trastevere si usa ( anche
perchè proprio lì non ci sono più romani), tipo "annamo a magnà !" mi
infastidiva invece notevolmente.
All'estero poi alla domanda "Italiano? Ah di Roma !"
seguiva quasi sempre " e come stà il vostro Papa? " battuta che prendevo
per quello che era, ma che mi dava nettamente l'idea di come gli altri ci vedevano;
confusi ancora oggi, e forse non a torto, con la Curia; per cui a nessuno passava in mente
di dire "ah la città dei Cesari !" ma solamente, e in tono ironico,
"ah e il Papa che dice?.
Ecco come ho vissuto fino ai miei trentacinque anni circa la mia
"Romanità". Non dico che il termine mi calzava come alto, bruno, e ...romano,
ma quasi; ero romano, orgoglioso e consapevole di essere nato a Roma e basta.
Un ricordo, che prima mi affiorava alla mente ogni tanto, col passare
del tempo ritornava presente sempre più spesso. Mio padre, che ho perso ai miei ventisei
anni, proprio quando inizia l'età per dialogare di cose serie di famiglia, che mi diceva
ogni volta che si andava in auto a Via Giulia:
" vedi Enzè stà Chiesa. Là dentro ce sta un nostro bisnonno che si chiamava come me Giovanni. che era un fratellone, perchè noi devi sapè che semo romani de otto generazioni."
"Chissà che vuole dire?" Pensavo io da ragazzo! Però intanto avevo memorizzato; quanto bastava. Passa il tempo e poi per tutti arriva il momento X e scatta la molla. "Ma chi era questo bisnonno Giovanni o Luigi, che neanche mio padre si ricordava tanto bene?"
Anno Domini 1978. Partono le ricerche. Da dove?
Ovviamente dalla Chiesa di Via Giulia all'arco Farnese, o meglio dall' archivio della sua
confraternita, da anni depositato al Vicariato.
Tre anni di studi, di ricerche di nomi e personaggi per me
completamente nuovi ed ecco ricostruiti trecento anni della famiglia Morelli. Accidenti!
aveva ragione mio padre. Tutto l'albero genealogico con gli atti di nascita, di battesimo,
di cresima, di matrimonio, di morte di circa cinquanta componenti la famiglia, fino al
1706 data di nascita del primo "sventurato" Pietropaolo Morelli trasferitosi da
Livorno a Roma all'età di otto anni, alla morte del padre Francesco fiorentino, presso la
sorella maggiore già a Roma dopo il matrimonio.
Mica poco. Sette generazioni di Morelli, otto con i miei figli, nati a
Roma, documentati dai libri delle Parrocchie da Trastevere a Piazza Navona, (praticamente
tutta la Roma di allora), passando per S. Crisogono, S. Cecilia, S. Maria in Trastevere,
S. Caterina della Rota, S. Luigi dei Francesi e così via, fino al 1870, per poi
continuare anno più anno meno all'anagrafe di Roma fino ai giorni d'oggi.
Cominciavo già ad essere molto più che orgoglioso della mia "
Romanità". Direi fiero.
Gli anni successivi furono tutti dedicati all'affinamento delle mie
ricerche, aiutato persino da una novantenne cugina di mio padre, Antonia Morelli, che fino
ad allora non avevo mai conosciuto personalmente.
Fu lei a raccontarmi tante e tante vicende sulla famiglia (tutte quelle
che non ebbi il tempo di affrontare con mio padre); lei che mi fece anche scoprire
iscrizioni, lapidi, vecchie proprietà in giro per la mia Roma, di cui ignoravo
completamente l'esistenza.
Peccato che sul più bello se ne sia andata! Grazie Antonia.
A quel punto giravo per Roma a petto gonfio e testa
alta.
Ma non era niente! Ed ora vi racconto il perchè.
Un giorno del 1995, ci ritroviamo io e mio fratello
Giorgio, interessato e coinvolto anche lui in questa avventura, a parlare delle nostre
cose; ci viene in mente di saperne di più su quella casa che nostro padre aveva ereditato
a Via Giulia, dove abitava da ragazzo, e venduta frazionata negli anni '40, '50 e '60.
Casa che, sebbene da me mai vissuta, nè visitata dentro, dal di fuori mi è così
familiare che la considero ancora mia.
Quello fu pane per i denti di mio fratello. Partì all'attacco a testa
bassa fra Conservatoria, Archivio Notarile, di Stato, Capitolino, dei Fiorentini, dei
Bresciani e così via. Più andavamo avanti , anzi indietro, e più materiale usciva
fuori, intrecciata come era la vita della famiglia con confraternite, compravendite, atti
notarili, doti, testamenti, tribunali. Di tutto e dovunque.
In tre anni il mio archivio è passato da mille a quasi seimila pagine
di documenti, tutti fotocopiati da originali depositati.
Altro che semplice albero genealogico; c'era il vissuto quasi
quotidiano della famiglia Morelli dal 1800 ad oggi, calato nella realtà dei tempi, con un
filo conduttore unico che ha attraversato centosessanta anni della storia di Roma da
Napoleone a Mussolini.
Se non mi prendessero per pazzo girerei per la mia Roma con il vessillo
capitolino. Un po' di più che semplice romano direi!
La vicenda, di cui ho scritto un saggio intitolato "Avevano
pensato a tutto..", in due righe e questa.
Agli inizi dell'ottocento, dopo il periodo Napoleonico, il mio
trisavolo Giovanni capomastro falegname, (quello di cui parlava mio padre senza saperne
nulla di nulla), si aggiudica un bando di gara per l'assegnazione in enfiteusi (in uso) di
circa venti immobili di proprietà di alcune confraternite romane, per tre generazioni di
maschi. Gli immobili vengono restaurati ed affittati e inizia così per la sua famiglia,
poi per i figli e poi ancora per i nipoti, un lungo periodo di benessere e di elevazione
sociale.
Dopo il Settembre del 1870 vengono applicate anche a Roma alcune leggi
del Regno d'Italia, che di fatto tolgono tutti i beni alle confraternite; beni che vanno
all'asta, oppure, come nel nostro caso, passano quasi d'ufficio, per due lire, agli
enfiteuti.
Alla fine di una una lunga battaglia giudiziaria fra i Morelli e le
povere confraternite ovviamente soccombenti, gli immobili diventano quindi di proprietà
della famiglia, che fino ad allora li aveva solo gestiti in cambio del pagamento di un
modesto canone.
Potete immaginare cosa è successo poi.
L'euforia iniziale per il colpaccio fatto, qualche ripensamento verso i
"benefattori" con un contentino, e poi fra divisioni, testamenti, liti, cause,
demolizioni, risarcimenti, la generazione successiva, quella per intendersi di mio padre
alla fine non ha conservato più nulla. Il tutto raccontato e testimoniato in quasi
cinquemila pagine .
I Morelli hanno lasciato o no il segno del loro passaggio ?
La mia Romanità è al massimo. Mi spetta di diritto.
Vincenzo Morelli
Settembre 1998
FINE