Feste, ricorrenze, e tradizioni romane


17 Gennaio

La benedizione degli animali a S. Eusebio

    Ogni anno il 17 gennaio, davanti alla chiesa di Sant'Eusebio, all'angolo tra via Napoleone III e piazza Vittorio, si rinnova una tradizionale quanto curiosa funzione: quella della benedizione degli animali. Oggi il rito è celebrato in verità in forma assai ridotta e i partecipanti si sono ristretti ai soli animali domestici, come cani, gatti e canarini. Nei secoli passati, al contrario, la cerimonia si svolgeva con grande sfarzo, gli animali da benedire erano numerosissimi e andavano dai buoi agli asini, dagli animali da cortile fino ai cavalli delle carrozze dei nobili; la benedizione, poi, aveva luogo in origine nella vicina chiesa di Sant'Antonio Abate - il santo protettore degli animali - e solo quest'ultimo secolo è stata dirottata, per motivi di traffico, a Sant'Eusebio. La cerimonia, di grande attrazione per gli stranieri, si ripeteva spesso per diversi giorni e cominciava fin dalle prime ore del mattino del 17 con la sfilata di tutti i quadrupedi, tra due ali di folla, fino alla chiesa. Qui un sacerdote, munito di un grande aspersorio, spruzzava energicamente le bestie impartendo loro la benedizione. Fra le testimonianze scritte giunteci dell'avvenimento ci sono anche quelle di Goethe e di Andersen, mentre la scena è stata immortalata in una litografia di A.J.B. Thomas del 1823, in un acquerello di Bartolomeo Pinelli del 1831 e in un quadro del danese Wilhelm Mastrand del 1838.
    Naturalmente la benedizione richiedeva un'offerta da parte dei proprietari delle bestie alla chiesa di Sant'Antonio; essa andava da quelle in natura dei contadini a quelle cospicue in denaro dei nobili. Ciò portò ad una concorrenza tra Sant'Antonio Abate e altre chiese romane per l'esclusiva sulla benedizione degli animali, tanto che nel 1831 il cardinale vicario dovette intervenire minacciando la sospensione a divinis per chi avesse compiuto il rito al di fuori della chiesa di Sant'Antonio.


Gennaio - Febbraio

Il Purim di Roma

    Purim di Roma o Moed di Piombo è una ricorrenza ebraica tutta romana istituita per ricordare i drammatici avvenimenti verificatisi nel 1793, qualche tempo prima dell'arrivo delle truppe francesi in Italia, quando una folla di rivoltosi radunatasi intorno al ghetto tentò di incendiarlo nonostante l'intervento delle guardie inviate dal governo pontificio.
    Il fuoco venne applicato al portone della Regola, ma grazie ad una provvidenziale tempesta che oscurò il cielo fino a farlo diventare plumbeo, le fiamme si spensero. A causa dei tumulti, nel ghetto venne dichiarato il coprifuoco per otto giorni e, sebbene il pericolo rimanesse incombente, non si verificarono ulteriori danni. In ricordo di questi avvenimenti si formò una confraternita ebraica, la Ezrà be-zarod, che assunse l'incarico di preservare la memoria dell'evento e di celebrare la salvezza miracolosa. Da allora, per gli ebrei romani il 2 di Shevat è un giorno particolarmente gioioso e speciali liturgie ricordano la sventata disgrazia e l'assedio del ghetto.


Febbraio

La Candelora

    La festa della Candelora fu istituita da papa Gelasio I, tra il 492 e il 496, dopo che ebbe ottenuto dal Senato l'abolizione dei Lupercali, l'antichissimo rito di purificazione che si celebrava a febbraio essendo stato questo, per molti secoli, l'ultimo mese dell'anno. Il rito era volto a eliminare le impurità accumulate nell'anno che finiva e a riacquistare la purezza necessaria per iniziare bene l'anno nuovo. Lo stesso nome februarius era derivato dalla parola februa (ritenuta d'origine sabina) che significava, per l'appunto, "purificazione".
    I Lupercali si celebravano il giorno 13 con connotazioni così tipicamente pastorali da far pensare che la festa fosse addirittura anteriore alla fondazione di Roma.
    Momento culminante era quello in cui i sacerdoti, detti luperci (cioè "allontanatori dei lupi"), sacrificavano una capra nella grotta del Lupercale, ai piedi del Palatino verso il Velabro, dove la lupa avrebbe allattato Romolo e Remo. Col sangue dell'animale ucciso essi toccavano poi la fronte di due ragazzi, che detergevano subito dopo con un panno di lana imbevuto di latte. Quindi tagliavano la pelle della capra in piccole strisce per farne delle fruste con le quali, correndo attorno al Palatino, colpivano la gente che veniva cosi februata, ossia purificata, e soprattutto le donne, che ritenevano in tal modo di garantirsi la fertilità.
    Quando la Chiesa intervenne, la festa dei Lupercali era ancora così tenacemente celebrata che, piuttosto che sopprimerla, il papa preferì "cristianizzarla", tenendone vivo il significato e dedicandola portando alla "purificazione di Maria Vergine" (dopo il parto, secondo l'uso ebraico). Fissata all'inizio del mese - il giorno 2 - la festa cristiana fu detta anche "delle candele" (e a Roma, la Candelora), perché ne era caratteristica la benedizione dei ceri, che i fedeli portavano in processione come simbolo del battesimo purificatore dalla macchia del peccato originale.
    I ceri venivano poi conservati in casa per essere accesi, a invocare la protezione divina, nei momenti difficili e specialmente durante i temporali.
 


9 Febbraio

Proclamazione della Repubblica romana

    La mattina del 9 febbraio 1849 Giuseppe Galletti, presidente delI'Assemblea Costituente Romana, dal balcone del Palazzo Senatorio legge il decreto fondamentale della Repubblica romana fra l'entusiasmo dei cittadini che affollano piazza del Campidoglio.
    Nella seduta notturna dell'8 febbraio alle 23,30 la grande maggioranza dell'Assemblea - che era stata eletta a suffragio universale il 21 gennaio -ha dichiarato la decadenza del governo temporale dei papi e ha proclamato la nascita della Repubblica.
    Nel giro di pochi mesi è stato ucciso Pellegrino Rossi; è stato sconfitto Carlo Alberto; è fuggito Pio IX a Gaeta; si sono dissolti il "momento magico" del '48 e l'equivoco neo-guelfo. Aveva ragione Gregorio XVI a sostenere che il potere clericale non era riformabile e ha ragione Giuseppe Mazzini "che la libertà non si riceve in regalo, ma bisogna conquistarla e riconquistarla giorno per giorno".
    La proclamazione della Repubblica romana è la classica azione dimostrativa, destinata ad un esito tragico perché nel 1849 è mutato il clima politico nazionale e internazionale, tanto più che l'ex rivoluzionario Napoleone (il piccolo) Bonaparte si è schierato con la conservazione e la reazione. E la Repubblica romana cadrà gloriosamente, radicandosi anche nei ceti popolari, col sacrificio di tanti romani e italiani, per rivendicare il diritto all'autodeterminazione, all'indipendenza ed unità nazionale, alla libertà.


9 Febbraio

Seconda emancipazione degli ebrei romani

    L'articolo VII dei principi fondamentali della costituzione della Repubblica romana proclamata il 9 febbraio 1849 recitava: "dal credo religioso non dipende l'esercizio dei diritti civili e politici"; questo significava per gli ebrei romani, segregati nel ghetto dal 1555, la piena emancipazione.
    Il contributo in termini di partecipazione ebraica agli eventi bellici e politici della Repubblica fu alto, basti pensare a figure come Samuele Alatri, Samuele Coen e Emanuele Modigliani, divenuti membri del Consiglio comunale, o l'arruolamento di numerosi ebrei nella guardia civica. Volontari israeliti giunsero a sorreggere le sorti dell'esperienza repubblicana al fianco di Mazzini e Garibaldi. Il sogno di libertà svanì al momento del ritorno di Pio IX che, abbandonata ogni tendenza liberale, in un proclama datato 12 settembre 1849 richiamava in vigore il sistema di segregazione civile e d'intolleranza religiosa verso la comunità ebraica romana. Gli ebrei dovranno attendere ancora vent'anni per vedere realizzata la loro piena equiparazione, e ciò avvenne il 20 settembre 1870. 


Il Carnevale romano  

     Il Carnevale romano nel Sette-Ottocento era un avvenimento europeo di grande richiamo. Lo testimonia la produzione strabocchevole delle testimonianze di pittori e scrittori che lo hanno reso eterno nei musei e nelle letterature di tutto il mondo.
    Nacque alla fine del Quattrocento, inventato, per l'innato gusto alla festa in maschera, proprio da un veneziano, il gaudente e magnifico papa Paolo II Barbo, che da Palazzo Venezia diede il via legale allo spettacolo. Cosi racconta il Platina: "Correvano i vecchi, correvano i giovani, correvano i Giudei [...] Correvano i cavalli, le cavalle, gli asini e i bufali con tanto piacere di tutti per le risa grandi [...] Affacciato alla finestra stava il Papa che supremo gusto e piacere di queste feste prendeva". Poi dice che il papa gettava a tutti un carlino. Il popolo era il regista dello spettacolo. C'era la corsa dei cavalli "barberi" da piazza del Popolo a piazza Venezia, c'era la "mossa" per sgombrare la strada, i "mazzettacci" di fiori buttati a bruciapelo sulla faccia. Chiudevano, il martedi grasso, i "moccoletti", e il "mor'ammazzata" sputato in faccia a chi teneva la candela accesa. Spegnerla significava prolungare la festa. "Il corso era un fiume di fuoco"; nelle Lettres a M.me Langlès lo scriveva il De Millin. Gogol, Goethe, e il Grand Tour del Sette-Ottocento sono gli osservatori-narratori dello spettacolo. Le stampe del Thomas, del Pinelli e del Morner sono dei documentari.
    Ci fu un tentativo "umbertino" dopo il '70, anche sotto la spinta sottile della regina Margherita, gran festaiola; ci furono le sfilate sfrontate ed esilaranti del Generale Mannaggia La Rocca inseguito dalla ragazzaglia scatenata, ma il declino era stato sentenziato dal "no", della Giunta Venturi nel 1876. La "Società Pasquino" lo aveva riproposto, ma il secco diniego capitolino fu motivato dal fatto che quella corsa selvaggia aveva fatto un morto, un soldato del 58° fanteria, un tale Bottino.


9 Marzo

Santa Francesca Romana 

La benedizione delle automobili

    Una tradizione che risale appena agli anni Trenta del secolo passato, ma il cui interesse dovrebbe accrescersi col tempo, coinvolgendo molto i nostri nipoti, destinati a diventare ancor più di noi dipendenti dalle automobili e dai veicoli a motore, in un frenetico spasimo di rapidità degli spostamenti.
Si sa che "Ceccolella" Bussi de' Leoni, sposa e poi vedova di un Ponzani - una delle grandi famiglie baronali del Quattrocento, maggiorente di Trastevere -, godette del dono della dislocazione, la facoltà cioè di trovarsi in più luoghi contemporaneamente. Quando, a somiglianza della benedizione impartita tradizionalmente agli animali per Sant'Antonio Abate, il 17 gennaio, che coinvolgeva, un tempo, anche le carrozze padronali, si pensò di dedicare una speciale benedizione ai veicoli a motore, mania e orgoglio del secolo, ma anche occasione di no pochi rischi, si scelse come santa propiziatrice degli strumenti del rapido spostamento proprio santa Francesca Romana.
   Così, presso la sua chiesa dove riposa la salma di lei, ai limiti del Foro Romano, cominciarono a effettuarsi raduni di automobili. Oggi la benedizione potrebbe essere estesa alle due ruote motorizzate, mentre opportune discipline dovrebbero intervenire a stabilire i criteri di ammissione alla cerimonia di rappresentanza dell'intero parco macchine della città.
    Da parte sua, l'amministrazione comunale partecipa alla cerimonia offrendo per il culto della santa concittadina grandi mazzi di fiori dei vivai comunali.
    Nella stessa giornata le monache oblate, fondate dalla nobile dama e che conservano il loro quattrocentesco e cupo monastero, detto di Tor de' Specchi, sulla via del Mare, aprono le porte alla libera visita dei cittadini. Nella atmosfera rarefatta del convento si scoprono oratori, chiostri e saloni con una decorazione di pittura romana del xv secolo; qualcosa da non perdere.


19 Marzo

Festa di San Giuseppe

Lo sposo di Maria, San Giuseppe è, da tempo immemorabile, particolarmente venerato dalla gente semplice per la sua fama di "uomo giusto", attribuitagli dai Vangeli, e per aver esercitato il mestiere di falegname ed essere stato maestro d'arte per il figlio. Questa categoria di artigiani ne ha fatto il proprio patrono, e la Chiesa stessa lo ricorda come san Giuseppe Artigiano il primo maggio.
    Molte chiese di Roma furono a lui intitolate; tra quelle ancora esistenti ricordiamo la chiesa di San Giuseppe dei Falegnami al Foro, quella a Capo le Case, quella alla Lungara e quelle moderne al Trionfale e a via Nomentana. Vi sono anche altre due chiese interne, quella della casa delle Suore di Cluny in via Pietro Cavallini e quella del Collegio di piazza di Spagna, nonché gli altari di San Giuseppe di Terrasanta al Pantheon e di San Giuseppe Patrono della Chiesa Universale in San Pietro in Vaticano. Anche il nome Giuseppe si diffuse largamente tra uomini e donne per cui, il 19 marzo, molti Giuseppe e molte Giuseppine festeggiano il loro onomastico e ciò ha contribuito alla solennità e nel contempo alla popolarità della festa. Nel passato neanche tanto remoto - le manifestazioni più caratteristiche e gioiose della partecipazione popolare erano a Capo le Case e al Foro Romano, passate, in tempi più recenti, al Trionfale.
    Caratteristica fondamentale della festa popolare di San Giuseppe erano le "frittelle" e i "bignè alla crema", preparati dai "friggitori", davanti a tutti, e fritti in giganteschi padelloni, pronti già dalla sera prima, accanto alle bancarelle ornate di festoni di carta, di bandierine multicolori e di rami d'alloro. Le frittelle di San Giuseppe e i bignè di San Giuseppe facevano da ghiotto sfondo a questa festa così sentita e partecipata che venne definita la "Sagra di San Giuseppe frittellaro".
    Nella chiesa dei Falegnami al Foro si svolgeva una doppia festa: quella del santo e quella della categoria artigiana di cui il santo era protettore. L'Universitas fabrorum lignariorum l'aveva infatti costruita, a sue spese, sul Carcere Mamertino e sull'antico Oratorio del Crocifisso al Foro. Per la cura della chiesa e per i loro esercizi di pietà e di carità avevano fondato la Confraternita di San Giuseppe dei Falegnami, che organizzava anche i festeggiamenti del 19 marzo.
    L'Università dei Falegnami, che raccolse le proprie regole nel 1583 negli Statuta universitatis et ortis lignarolorum, era una numerosa famiglia formata da venticinque "corpi d'arte", tra cui, oltre agli ebanisti e intagliatori, i fabbricanti di botti, di basti, di catini, di cembali, di barche, di tamburi, di mantici, di tacchi e zoccoli, vi erano anche coloro che costruivano i molini su barche con i congegni mossi dalla corrente del Tevere.
    Alla loro festa i Falegnami, per pregare insieme e per un momento di distensione intorno ai "friggitori", invitavano altri organismi similari, tra cui i membri della Confraternita di Sant' Eligio dei Ferrari, I'Universitas fabrorum ferrariorum, altra famiglia numerosa di artigiani, che raccoglieva tredici corpi d'arte di lavoratori dei metalli, comprendenti oltre venticinque mestieri. A volte interveniva l'Arciconfraternita di Santa Maria dall'Orto che univa tredici università, quasi tutte di commercianti.
    In quel giorno, in pio raccoglimento, ma anche in sana letizia venerava il santo una folta schiera di artigiani, appartenenti ai più diversi mestieri, che la caratterizzavano come festa dell'artigianato.


I Quaresimali

Durante la Quaresima a Roma si mangiavano i "Quaresimali" che anche oggi, quando si trovano, sono buonissimi. Tipico dolce romano costituito di pasta lievita condita con zucchero, uvetta e pinoli, ben cotta al forno. Il maritozzo, nella tradizione, era molto più grande di quello che si mangia adesso, una specie di torta delle dimensioni di una pagnotta, spesso guarnita di ricami di zucchero raffiguranti cuori trafitti da una freccia, che il primo venerdì di marzo veniva donata alle fidanzate, talvolta contenente all'interno un piccolo oggettino d'oro o persino un anello.
    Durante la Quaresima, per alleviare le sofferenze del digiuno (che era rigorosissimo), fu consentito il consumo dei maritozzi "Quaresimali", quasi per compensare l'astinenza penitenziale dalle delizie alimentari. I "Quaresimali" erano più ricchi dei maritozzi normali perché completati da canditi, ed erano lievemente più piccoli e più cotti cioè più scuri in superficie.
    Scrive Giggi Zanazzo, lo studioso di tradizioni romane: "In Quaresima, per devozione, si mangiano i maritozzi; anzi c'è qualcuno che è così devoto da mangiarsene chissà quanti al giorno. Meno male che lo fa per devozione!".
    Su questa ghiotta interruzione del digiuno quaresimale, sulla bontà e sul consumo dei "Quaresimali" circolava la seguente innocente strofetta:

Er primo è pe' li presciolosi;

Er siconno pe' li sposi;

Er terzo pe' I'innammorati;

Er quarto pe' li disperati.


25 Aprile

Festa di Pasquino

   Si svolgeva il 25 aprile, giorno di San Marco evangelista, come festa goliardica inserita nel vivo di una processione che i canonici di San Lorenzo in Damaso effettuavano attraversando il rione di Parione. Studenti e docenti dell'archiginnasio Sapienza si portavano in corteo davanti alla statua di Pasquino, che veniva addobbata con una maschera mitologica, raffigurante appunto un personaggio del mondo antico, ogni anno diverso a seconda del "tema" sul quale gli epigrammi vertevano. Gli epigrammi, in latino, erano scritti come esaltazione del regime e quindi le feste erano ben viste dallo stesso papa. Sovrintendevano ad esse un "protettore", nella persona di un cardinale, e un "segretario" che aveva la funzione di esaminare gli epigrammi per farne poi una pubblicazione. La prima festa fu nel 1508 e si ripeté annualmente fino al 1518; ci fu una pausa nel 1519, poi riprese dal 1520 al 1522 con Leone X, pausa per altri tre anni con Adriano VI, e ripresa nel 1525 e 1526 con Clemente VII, fino a Paolo III nel 1535, 1536 e 1539, ultimo anno di una festa.
   Questa festa di Pasquino che esaltava il potere finì, ma parallelamente si era andato diffondendo un pasquinismo clandestino contro il potere con affissioni notturne alla statua di epigrammi in latino e italiano scritti a mano. Furono affissi anche ad altre "statue parlanti" che sono Marforio, Babuino, Abate Luigi, Facchino e Madama Lucrezia; e circolarono opuscoli e libelli stampati di nascosto. Sorse così una "festa" quotidiana di Pasquino, alimentata da questa produzione letteraria satirica che denunciava immoralità e soprusi del potere pontificio e della famiglia nobile ad esso collegata. Veniva curata da poeti, ma su commissione di prelati e nobili che volevano diffamare coloro che detenevano il potere per subentrare un giorno ad essi. Questo pasquinismo, non di regime, fu perseguito dalle autorità, tanto che alcuni poeti furono smascherati e finirono anche sul patibolo. Ma la produzione delle pasquinate, scritte dall'Ottocento anche in dialetto, è durata ininterrottamente fino alla caduta del regime pontificio nel 1870. E, in forme blande e saltuarie, essa è proseguita fino a oggi contro il potere in generale, come libera denuncia di cittadini in una "festa" di Pasquino che è in fondo quotidiana.


maggio    (Tradizioni Romane)

                                                  La visita alle Sette Chiese

    Per tutto il mese di maggio, ma comunque entro il giorno che precede l'Ascensione (il prossimo 12 Maggio) si effettua la " Visita alle Sette Chiese".
    È questa una antica tradizione del popolo romano, che si recava in devota preghiera alle sette fra le più belle e famose basiliche dell'Urbe, quattro basiliche maggiori e tre minori. Una visita dopo l'altra: San Lorenzo fuori le mura, Santa Croce in Gerusalemme, Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano, San Sebastiano all'Appia Antica, San Paolo fuori le mura, San Pietro in Vaticano. La "Visita" fu istituita da san Filippo Neri, patrono di Roma, che alla pratica religiosa volle unire la tipica "scampagnata" molto cara ai romani. E cosi, a circa metà percorso di quella sacra gita, si svolgeva una ricca merenda popolare, che aveva luogo alla vigna dei Mattei, l'attuale Villa Celimontana. Questa mescolanza, tipicamente romana, tra il sacro e il  profano, consentiva a san Filippo di chiamare la "Visita" il «Carnevale cristiano».
     Dopo il merendone vi era un concerto con organo, liuti e cori e la partecipazione della fanfara di Castel Sant'Angelo. Un'altra tradizione che si aggiunse col tempo fu il "sermoncino del pupo": una ragazzina ripeteva a memoria un discorsetto semplice, preparato per lui. Col passare degli anni alcune procedure sono cambiate e si sono modificate, ma lo spirito del singolare pellegrinaggio è più o meno rimasto lo stesso. Giggi Zanazzo, l'ottocentesco cultore di usi e costumi popolari romani, che si esprimeva in dialetto, così scrive della "Visita": «Se ne ponno visità cinque in una giornata e l'antre dua in un'antra» A piedi. naturalmente, senza fretta, senza agonismi e, una volta tanto,  senza auto, torpedoni, motorini; in processione, in gruppi di turisti attenti, da soli, ma a piedi, per adempiere alla devozione penitenziale ma, nello  stesso tempo (Roma ce lo consente), per soddisfare la gioia di vedere alcune bellezze della città.


24 giugno  (Tradizioni Romane)

San Giovanni

La Notte di San Giovanni, il fantasma di Erodiade - moglie adultera di Erode Antipa che, su istigazione di lei, aveva fatto decapitare il Battista -chiamava a raccolta le streghe sui prati del Laterano dove, gemendo e piangendo, si aggirava ancora il fantasma di Salomè.
Le streghe, in groppa ai diavoli o a cavallo delle scope, arrivavano in volo e iniziava la sarabanda che durava fino all'alba.
I romani, allora, suonando campanelli e campanacci, accorrevano da tutte le parti. E, tenendo in alto torce e lanterne accese, cercavano di vedere le streghe volare nel buio.
Bisognava, però, stare attenti a non svegliare "Er Nocchilia" (terrificante figura apocalittica nata dalla fusione dei due profeti Enoch ed Elia) che dormiva - e ancora sta dormendo - sotto la Scala Santa. Di lì, uscirà il Giorno del Giudizio, sbugiarderà l'Anticristo e sarà la Fine.
Si svegliavano, però, le Belle addormentate, dietro le finestre chiuse, ai suoni e ai canti dei "carciofolari abbruzzesi" (complessi di quattro elementi: due arpe, un violino e un triangolo)

Belle, che andate pe' li sette sonni,
svejateve 'stanotte è San Giovanni,
È notte d'incantesimi. È' notte de magia,
le streghe, in groppa ai diavoli, volano in compagnia...

Le Belle correvano a unirsi alla festa. Ma, uscendo, lasciavano davanti alle porte e alle finestre, scope e barattoli di sale grosso, un deterrente sicuro per impedire alle streghe di entrare nelle case ad eseguire fattucchierie. Essendo, infatti, la strega curiosa per natura. prima di entrare, sarebbe stata costretta a fermarsi, per contare tutti i fili di saggina della scopa e tutti i grani di sale, uno per uno. Cosi sarebbe passato il tempo breve della notte più corta dell'anno. E il sole, levandosi, colta la strega nel corso della conta, l'avrebbe spazzata via, con le ultime ombre.
Intanto, tra Santa Croce in Gerusalemme e la Basilica, si accendevano i "Fuochi di San Giovanni" per opporre la luce alla notte di tregenda.
Poi, andavano tutti fuori porta, alla "Salita degli Spiriti", dove si compiva il rito fondamentale della festa: si mangiavano le lumache in umido. Perché, la notte di San Giovanni, oltre a contrarre il tradizionale "comparatico", tutte le persone che, durante l'anno, avevano avuto contrasti e divergenze, si ritrovavano insieme per riconciliarsi.
Forse, un ricordo delle antiche Carisie (le Grazie) celebrate dagli antichi romani, in onore della dea Concordia. Ma perché si mangiavano le lumache? Perché le "corna", in antico, non erano il simbolo del tradimento coniugale, ma significavano, semplicemente "discordia". Non a caso sono divergenti. Così, quelli che avevano avuto discordia in comune si riunivano insieme e, mangiando le cornute, seppellivano nello stomaco rancori e inimicizie.
Usanze e tradizioni dimenticate che potrebbero tornare, risuscitando la Notte di San Giovanni, sotto forma di un breve Carnevale d'Estate, all'insegna della Riconciliazione e della Concordia.
E così, tra maschere di streghe e di personaggi storici, attinenti ai luoghi e al santo (uno per tutti: la mai esistita Papessa Giovanna che sgravò sullo Stradone), fuochi, campanelli, campanacci e indigestioni di lumache (ammesso che si trovino ancora o che, trovate, incontrino i gusti di generazioni, cresciute e pasciute da McDonald's), trascorrere una notte serena ascoltando voci romane che, accompagnate dai Carciofolari (in costume) o da orchestrine, cantano le più belle canzoni di San Giovanni, il cui concorso nacque nel 1891. Un repertorio bellissimo e sterminato di canzoni romane, delle quali basta prenderne una qualsiasi, accennarne la strofa o il ritornello, e vedere intorno gente che. ricordandola di colpo, manda lampi dagli occhi.
E' vero che siamo in tempi di rap e di rock ma Gigi Proietti, nei suoi spettacoli, canta ancora con successo (e spesso a richiesta):

Me feci un bell'insogno, I'antra notte
che annamio tutt'e dua a San Giovanni...

La canzone è del San Giovanni 1894.


29 giugno  (Tradizioni Romane)

Santi Pietro e Paolo

Sono entrati persino nei giuochi dei ragazzini romani e non sappiamo se ci siano restati anche al giorno d'oggi. Prendendosi per mano cantavano: «San Pietro e San Paolo / opritece le porte». E l'altro gruppo rispondeva: «Le porte stanno aperte / per chi ce vole entrà». Gli altri, gli spodestati Dioscuri, dall'alto della cordonata del Campidoglio, da Montecavallo guardano delusi i romani che, dimenticando le folli galoppate e la vittoria del lago Regillo, si sono dati anima e cuore ai due stranieri giunti in riva al Tevere dalle lontane contrade di Giudea. Si conserva memoria persino degli indirizzi dove hanno abitato: Pietro nella domus del senatore Pudente, dove oggi sorge la chiesa di Santa Pudenziana, Paolo sull'Aventino, presso Aquila e Priscilla tessitori, al luogo di Santa Prisca. All'Arenula, la chiesa di San Paolino sta a indicare la sua dimora di prigioniero agli arresti domiciliari, legato a catena al braccio d'un soldato romano. Imperando Nerone, tradizione vuole che, portati dal plotone presso la Piramide di Caio Cestio si scambiassero l'ultimo saluto per andare Pietro a essere crocifisso a capo sotto presso il Circo di Caligola in Vaticano e Paolo a essere decapitato alle Acque Salvie, località sull'ostiense segnata poi da tre prodigiose fontane sgorgate al tocco della sua testa benedetta, tutta cervello a giudicare dalle sue lettere apostoliche. Pietro con le sacre chiavi, Paolo con lo spadone che colpisce l'eresia segnarono chiese, strade e ponti. Mario Dell'Arco immagina che Paolo con un fendente disancori il ponte degli angeli e lo trasferisca direttamente in Paradiso.
Un tempo, il 29 giugno, giorno dedicato alla memoria del loro martirio, si faceva festa grande. Fuori di Porta Cavalleggeri, tutto verde di prati e odor di mentuccia, dove c'era la celebrata "Osteria del '31", si poteva cenare pagando solo lo "scommido" al trattore e portandosi da casa il fagotto delle cibarie. Lo stesso servizio forniva "Scarpone" a San Pancrazio anche con lo svago della "canofiena". Il numero più bello era l'illuminazione del Cupolone, con i sampietrini agili come gatti a sistemare fiaccole sui costoloni michelangioleschi. La festa si concludeva con Castel Sant'Angelo incendiato dai fuochi d'artificio. Per fare un po' di spazio a san Paolo gli si concedeva anche il giorno 30. Abbuffate da Capoccetta e al Belvedere con terrazza sul fiume e ancora girandola. Nell'una e nell'altra festa giocattolai ambulanti, e soprattutto porchettari. «La porchetta de Cadorna chi la magna ciaritorna».



Luglio - La festa de noantri

La Madonna del Carmelo, a Roma, ha assunto nel tempo delle connotazioni particolari e peculiari, divenendo intorno agli anni Venti, anche "la festa de noantri"   (noi altri).
Una leggenda narra che alcuni portuali, pescando sulle rive del Tevere, verso la metà di luglio di un anno imprecisato, raccolsero dal fiume una cassa al cui interno giaceva una preziosa statua della Madonna. I pescatori, estasiati dalla bellezza della Vergine, si affrettarono a trasferirla nella chiesa di sant'Agata, dove ancora oggi risiede. Da quel giorno, il sabato successivo alla festa del Carmelo, a Roma la Madonna venuta dal Tevere viene portata in processione, dalla chiesa in cui risiede attraverso tutte le vie del rione Trastevere, per giungere a San Crisogno, dove riposa per otto giorni, prima di riprendere il suo posto a sant'Agata.  
La processione, che anticamente era organizzata dalla compagnia dei vascelari, i vasai, che plasmavano i boccali di coccio e le brocche per servire il vino nelle osterie, è oggi appannaggio dei trenta confratelli dell'arciconfraternita del Ss. Sacramento e di Santa Maria del Carmine, i quali con il tradizionale saio bianco, oggi però privo di scapolare, portano la statua attraverso il quartiere popolare romano.
L'impronta festaiola della celebrazione, un tempo caratterizzata dalla presenza dei vascelari e dei loro boccali colmi di vino, non è però andata smarrita. La festa della Vergine è infatti affiancata dalla festa pagana di "noantri", a cui partecipa tutto il quartiere con bancarelle, mercatini, osterie aperte a tutti i passanti, manifestazioni e teatri ambulanti, che attirano l'attenzione di curiosi e turisti, spesso ignari della ricorrenza cristiana.


Settembre

Omaggio a Giuseppe Gioachino Belli

Il 7 settembre 1791, nel palazzo situato tra via Monterone, via dei Redentoristi e via del Teatro Valle, nasce Giuseppe Gioachino Belli, il più grande poeta romano. Nella sua sterminata produzione in dialetto. Belli non solo ha lasciato la memoria autentica d'una città articolata e complessa, tra papi e popolani, monumenti splendidi e interni poverissimi, sordidezze ed eroismi, ma ha anche testimoniato la volontà di definire un umanesimo integrale che possa coniugare i principi della carità cristiana con i valori laici e moderni della tolleranza e della solidarietà. Tutte le feste civili e religiose del calendario romano hanno lasciato tracce fondamentali nei sonetti belliani, dalle magnifiche cerimonie dell apparato della Chiesa alla scampagnata fuori porta (a Testaccio o a Villa Borghese, ai Castelli o al Divino Amore), dal 21 aprile alle feste ebraiche, dal carnevale alla commemorazione dei morti, dalla Befana a San Giovanni. Di tutti questi momenti, Belli ha ricostruito gli aspetti e le atmosfere, sì che la sua opera in questo senso appare un indispensabile punto di riferimento. Va doverosamente ricordato che, con enormi distanze di risultato poetico, l'opera di Belli fu continuata alla fine del secolo da Giggi Zanazzo, che si fece scrupoloso raccoglitore di riti, cerimonie e feste.
La città di Roma, come omaggio al suo poeta più universale, ricorda il giorno della nascita di Belli con una cerimonia semplice ed essenziale, anzitutto portando un fiore al monumento, oggi finalmente ben restaurato, e poi organizzando per la sera del 7 settembre un incontro spettacolo pubblico a piazza Fontana di Trevi, luogo belliano per eccellenza, visto che la fontana si appoggia proprio sul Palazzo Poli, dove Belli scrisse la grandissima maggioranza dei suoi sonetti. In questo incontro una personalità della cultura parlerà del suo rapporto con Belli, e alcuni attori leggeranno i sonetti romaneschi.


Porta Pia 

Il 20 settembre 1870 poche cannonate dell'artiglieria del generale Raffaele Cadorna aprono una breccia nelle Mura Aureliane, accanto alla Porta Nomentana o Pia, e alle 10,35 Pio IX ordina di alzare la bandiera bianca sulla cupola di San Pietro, su Castel Sant'Angelo e sul campanile di Santa Maria Maggiore.
La fine del dominio temporale dovrebbe essere un fatto epocale, ma si verifica come «un piccolo episodio nel grande dramma [...] della sanguinosa guerra franco-tedesca» (F. Gregorovius). Non c'è una sollevazione popolare e i manifestanti sono per lo più borghesi colti; non esiste la minoranza combattiva, radicata anche nel popolo, dei tempi della Repubblica romana.
L'abilità diplomatica del governo ha approfittato della sconfitta di Napoleone III, ma l'opposizione avrebbe voluto un ingresso "glorioso" alla Garibaldi e questa discordia è ampiamente sfruttata dalla propaganda vaticana, con ascolto favorevole presso milioni e milioni di cattolici europei e americani.
Subito dopo il 20 settembre è montato un "falso storico", con la fotografia dell'eroico attacco dei bersaglieri di Cadorna; successivamente Michele Cammarano dipinge la celebre carica dei bersaglieri, piume al vento e fanfara in testa, ripetuta nelle stampe di tutti gli edifici scolastici italiani.
Dalla breccia. però, oltre alle truppe entrano anche la libertà, la democrazia e la modernità. Quest'ultima nel giro di pochi decenni trasforma la città e la società "papaline". Cosi la Roma dei papi diventa la Terza Roma, capitale d'Italia.
Nel 1895 Francesco Crispi - antico garibaldino - promuove le celebrazioni per la Breccia di Porta Pia. La cerimonia del 20 settembre diventa subito popolare e coagula tutte le forze d'opposizione sotto il segno dell'anticlericalismo e del "libero pensiero"; diventa la rappresentazione d'una ideologia alta e nel 1912 raggiunge il culmine la tensione culturale espressa dallo slogan di Ernesto Nathan: «Più scuola, meno chiese». Poi, un secolo dopo la breccia, Paolo VI la definirà una benedizione di Dio. 


Nulla da segnalare di particolare per il mese di Ottobre

2 Novembre (Tradizioni Romane)

Assoluzione delle anime degli affogati nel Tevere

    L'Arciconfraternita dei devoti di Gesù al Calvario e di Maria Santissima Addolorata in sollievo delle Anime Sante del Purgatorio, detta dei Sacconi Rossi, che aveva istituito la "Via Crucis" al Colosseo, nel loro oratorio e cimitero dell'Isola Tiberina, il 2 novembre, al calar della sera, usavano celebrare una tradizionale e suggestiva cerimonia di suffragio per coloro che avevano trovato la morte nel Tevere, recandosi a celebrare il rito, in processione con il clero e gran folla di fedeli, al lume delle torce. sulla sponda dell'isola. Tornavano poi alI'oratorio per i riti di suffragio per i confratelli defunti e sepolti nel cimitero, ancora esistente, nel sotterraneo dell'oratorio stesso.
    La pia consuetudine venne meno alla fine del potere temporale, ma fu ripresa ai primi del nostro secolo, per iniziativa di don Ariodante Brandi, che rifondò la confraternita, ma si interruppe ai primissimi anni Sessanta per estinzione del sodalizio. Una quindicina di anni or sono il `'Centro Luigi Huetter per lo Studio e la Documentazione sulle Confraternite e le Università di Mestieri romane" insieme all'Arciconfraternita di Santa Maria dell'Orto e ai francescani di San Bartolomeo all'Isola ripresero la tradizione e il rito ha di nuovo tutto il suo fascino, specie da quando i riti liturgici sono passati ai Fatebenefratelli di San Giovanni Calibita, riuscendo anche a far risorgere la Confraternita dei Sacconi Rossi. Da allora la cerimonia, al tramonto del 2 novembre, si celebra con grande solennità e suggestione nell'isola tutta illuminata dalle classiche "padelle" sulle rive e sulle spallette dei ponti e grande affluenza di fedeli, che professionalmente accompagnano i riti, al lume di candele, sulle rive del fiume e nell'oratorio, fino al termine della cerimonia, che si chiude con l'assoluzione ai resti dei confratelli nel cimitero sotterraneo.


25 Novembre (Tradizioni Romane)

Santa Caterina. L'arrivo dei "pifferari"

    Una delle presenze che più immediatamente riportano alle particolari atmosfere delle feste natalizie è quella dei "pifferari". Si tratta, come scrive Belli, di "abruzzesi suonatori di pive e cornamuse o cennamelle che il popolo chiama ciaramelle", vestiti di "mantelletti rattoppati che raramente giungono loro al ginocchio", e che agivano in tre: un piffero, una zampogna, e una voce. William Gillespie, un turista americano in visita a Roma nel dicembre 1843, scriveva che "già un mese prima di Natale le strade sono percorse da suonatori ambulanti di zampogne che sono detti Pifferai. Sono personaggi molto pittoreschi, dall'aspetto di banditi, con alti cappelli a pan di zucchero, decorati con piume e nastri svolazzanti, con mantelli di pelle di pecora, le gambe avvolte da strisce di panno a vivaci colori, i capelli lunghi e le barbe cespugliose. A Broadway farebbero un effetto sensazionale".
    Il giorno in cui i pifferari cominciano a girare per le vie di Roma è dunque il 25 novembre, Santa Caterina, quando la tradizione vuole che cominci l'inverno: oggi si effettua il cambio delle coperte al letto si accendono i bracieri per il riscaldamento, "alle porte d'ingresso delle case di persone nobili o agiate si pone una stuoia", e proprio grazie all'arrivo dei "pifferari" si comincia a pensare a Natale, in una atmosfera in cui si uniscono la malinconia dei ricordi dell'infanzia e il bisogno di un momento di intimità familiare. Cosi scrive Belli in un sonetto datato 18 novembre 1831:

Li ventiscinque novemmre

Oggiaotto ch'è Ssanta Catarina
se cacceno le store pe le scale,
se leva ar letto la cuperta fina
e ss'accenne er focone in ne le sale.

Er tempo che ffarà cquela matina
pe Nnatale ha da fallo tal`e cquale.
Er busciardello cosa mette ? bbrina ?
La bbrina vederai puro a Nnatale.

E ccominceno ggià li piferari
a ccalà da montagna a le maremme
co cquelli farajòli tanto cari.

Che bbelle canzoncin Oggni pastore
le cantò spiccicate a Bbetlalemme
ner giorno der presepio der Zignore.


17 - 23 Dicembre (Tradizioni romane)

I Saturnali

La festa dei Saturnali era l'ultima del calendario romano stabilizzato. Dedicata a Saturno, dio della mitica "età dell'oro" durante la quale gli uomini vivevano in pace e senza bisogno di lavorare, essa aveva le caratteristiche d'una vera e propria "vacanza" e si celebrava dal 17 al 23 di dicembre: i "giorni più belli dell'anno", secondo il poeta Catullo. Dopo i riti religiosi che il 17 si svolgevano davanti al Tempio di Saturno, nel Foro, seguiva una sorta di carnevale, caratterizzato dalla più completa libertà di comportamenti, fino alla trasgressione e alla licenziosità.
    In omaggio all'uguaglianza dei "tempi d'oro", veniva concessa una pausa di libertà anche agli schiavi, che potevano così permettersi di banchettare insieme ai padroni e addirittura essere da loro serviti. La gente andava in giro per la città "mascherata" e con in testa il berretto frigio (che normalmente veniva posto sul capo degli schiavi al momento della liberazione) e s'abbandonava alla più sfrenata baldoria, mentre musici e danzatrici, attori, saltimbanchi e illusionisti improvvisavano ovunque i loro spettacoli. Si potevano fare scommesse e giocare d'azzardo e dare luogo a scherzi d'ogni genere. Ci si scambiavano però anche dei doni e figurine di terracotta, di cera o perfino di mollica di pane, che alludevano agli uomini soggetti alla sorte e al "gioco" degli dèi.
    In realtà, si trattava d'una festa dalle lontane origini contadine, che coincideva con la fine dell'anno agricolo: concluso il lavoro dei campi con le operazioni della semina (che si diceva satus da cui il nome di Saturnus). ci si disponeva allegramente al meritato riposo in attesa di ricominciare, a primavera. Intanto, per propiziarsi la futura abbondanza, con una sorta di rituale magico e "provocatorio", si dava fondo a quanto restava di quello ch'era stato prodotto nel corso dell'anno, per riaverlo nell'anno nuovo. Venendo poi a coincidere col solstizio d'inverno, la festa serviva anche a marcare nettamente il passaggio tra l'anno che finiva e quello che stava per subentrare. Per questo tra i doni c'erano quelli beneauguranti, come le noci, il miele, i datteri, e le candele di cera che, accese, accrescevano simbolicamente la luce (e il calore) del sole prossimo a risollevarsi sull'orizzonte a riprendere il suo corso nel cielo.


31 Dicembre (Tradizioni romane)

Il Capodanno di Piazza del Popolo

    Per centinaia di migliaia di romani l'appuntamento di Capodanno è ormai in piazza del Popolo. Dal 1993, infatti, è nata una nuova festa tradizionale, che si ripete in modo ricorrente proponendo, però, spettacoli sempre diversi e, talvolta, assolutamente originali. Un esempio, l'evento straordinario del 1994, con il concerto, in simultanea, di cinquanta pianoforti che hanno eseguito un vasto repertorio di celebri colonne sonore cinematografiche. Dal 1995 è iniziata, invece, la sequenza dei grandi cantautori romani, da Antonello Venditti a Renato Zero a Riccardo Cocciante. Ma, a parte gli elementi più propriamente spettacolari e culturali, il tema dominante del Capodanno in piazza del Popolo resta la festa: il ballo di massa che conclude sempre la manifestazione, l'esibizione dei musicisti e artisti di strada che la precedono, i fuochi artificiali di mezzanotte che, dal Pincio, creano scenari di particolare emozione. Uno dei luoghi più belli e significativi di Roma ha scoperto così una rinnovata forma di valorizzazione, in sintonia con gli stessi programmi di restauro avviati e con il desiderio di "riappropriazione" da parte dei cittadini degli spazi storico-artistici, da sottrarre al degrado e alla morsa del traffico.
    Da questo punto di vista, la giornata del 31 dicembre vede anche " l'occupazione culturale", già nel tardo pomeriggio, di molte aree vicine a piazza del Popolo, con l'azione di complessi bandistici o con installazioni di videoarte o arte elettronica. Nel corso delle ultime tre edizioni, inoltre, sulle chiese e sui palazzi sono state proiettate immagini di opere di artisti contemporanei, disegnando effetti di notevole suggestione. L'eccezionale partecipazione popolare ha decretato, dunque, il successo di una iniziativa ormai definitivamente calendarizzata e che a pieno titolo, è entrata a far parte della tradizione delle feste romane: una tradizione capace di riproporsi in sembianze sempre diverse e non soltanto intesa come semplice continuità con il passato.

 

FINE

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